Gli ultimi saranno i primi? Il problema della lettura matematica

Qualche settimana fa l’OCSE ha pubblicato uno studio che ha generato molte polemiche nel nostro paese. Si tratta del Programme for the International assessment of adult competencies (Piaac), con il quale si esamina, con cadenza triennale, i livelli di conoscenze e capacità delle popolazioni adulte (16-65 anni) in tre aree ritenute fondamentali per lo sviluppo di una nazione e dei suoi abitanti: literacy (lettura/comprensione/scrittura di testi), numeracy (comprensione e risoluzione di problemi matematici) e problem solving (utilizzo delle proprie conoscenze linguistiche e matematiche per risolvere problemi inattesi).
Le polemiche sono nate da una frase del nostro ministro del lavoro Giovannini

sulla scarsa “occupabilità” degli italiani. L’OCSE ci dice che l’Italia è al 23° posto per la literacy e al 22° per la numeracy, mentre per il problem solving non è riuscita a completare l’indagine. Davanti a noi oltre al Giappone, primo al mondo sia per capacità di lettura e scrittura dei suoi abitanti che per risoluzione di problemi matematici, troviamo i consueti paesi dell’Europa settentrionale (Finlandia, Svezia, Norvegia, Danimarca), alcune nazioni asiatiche emergenti, come la Corea del Sud, ma anche piccole realtà del sud dell’Europa come Cipro, oltre al blocco anglofilo (Australia, UK, Irlanda, USA). Non va bene per i cugini latini, come la Francia o la Spagna, che condividono con noi le ultime posizioni. In un articolo intitolato Molte storie per analfabeti apparso sul settimanale Internazionale del 18 ottobre, Tullio De Mauro cerca di approfondire la questione, andando oltre le levate di scudi che i sindacati prima e i social network poi hanno issato a difesa della nostra italianità. Fra i vari spunti interessanti offerti da De Mauro c’è il confronto fra il Giappone virtuoso e l’ Italia peccatrice che tentarono di diventare uno stato moderno negli stessi anni dell’Ottocento, con risultati molto diversi. L’Italia diede priorità alla creazione di un esercito e di un’industria militare, il Giappone puntò invece sull’alfabetizzazione generale e all’inizio del Novecento non c’era giapponese privo di licenza elementare, risultato che l’Italia ha raggiunto solo negli anni Settanta. Eppure mentre gli italiani s’indignavano e protestavano per cielo e per twitter, offesi e incapaci di accettare il risultato dell’indagine OCSE, i giapponesi, come ci racconta Yomuri Shimbun, cercavano di capire come potevano ancora migliorare, soprattutto nell’area del problem solving in cui sono risultati “soltanto” decimi. Un modo di vedere le cose che deriva da un concetto di partecipazione collettiva allo sviluppo della nazione che, sebbene in Giappone sia spesso troppo spinto, basta dare una lettura ai romanzi di Haruki Murakami per capirlo, ci dovrebbe insegnare l’arte della tenacia, della visione prospettica e della messa in discussione di noi stessi, abitudine da cui può nascere solo qualcosa di buono (Zygmunt Bauman insegna). Vorremmo evitare di trovarci in un futuro prossimo, mentre stringiamo fra le mani uno smart-phone a comando mentale, che si piega come un fazzolettino di seta nelle nostre tasche, e non sapere cosa farne.


Viene alla mente la frase di Karl Kraus «ci ritroviamo accanto a opere che ci sono costate così tanta intelligenza per inventarle che non ce n’è rimasta più per utilizzarle.» Una previsione sul nostro futuro che rischia, come ha scritto Jonathan Frenzen nel suo Kraus Project (in uscita per Einuadi nel 2014), di passare dall'apocalittico al realistico nello spazio di un pensiero.  

  


Link alla news su sul romanzo

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