Kafka vs Pita – immaginazioni a confronto.
Un uomo è al centro di una stanza
glaciale, è semi nudo e si contorce. Allunga le dita fino allo spasimo e si
accartoccia schiena a terra come un insetto, come l’insetto per eccellenza
della letteratura del Novecento. Parliamo di Gregor Samsa, un nome che
forse non vi dirà niente, eppure è il protagonista di uno dei racconti più
famosi degli ultimi cento anni, che tutti conoscono, anche se non l’hanno mai
letto. Parliamo de Le metamorfosi di Kafka, del commesso viaggiatore Samsa
che una mattina si sveglia tramutato in un orribile insetto e della sublime
angoscia che Kafka instilla in ogni suo gesto tentato e mancato, in ogni suo
pensiero, in ogni sua realizzata paura.
Ma parliamo anche di un azzardo immaginativo realizzato da Arthur Pita (coreografo dalle origini
portoghesi, nato in Sud Africa e divenuto famoso a Londra) con l’aiuto del
primo ballerino del Royal Ballet (Edward Watson), trasformatosi in un Gregor
Samsa privo di parole, ma soffocato dai gesti che lo spingono a contorcersi
fino a esplodere sul palco del Joyce
Theater di New York con lo spettacolo the
Metamorphosis. È lo stesso Pita a dirci cosa l’ha spinto a scegliere un
racconto basato sull'incapacità di affrontare la diversità, invece della “consueta”
storia di amori negati da cui nascono molti dei più famosi balletti
dell’Ottocento e del Novecento: «Ho realizzato quanto viscerali e potenti
fossero le immagini offerte da Kafka e subito ho pensato a cosa avrebbe voluto
dire trasformare queste parole in movimento. Dovevo provare.» [1]
Sembra
essere la necessità quindi, come ci ricorda
anche Scott Fitzgerald, a guidare le
scelte dello scrittore e in questo caso del coreografo. Eppure, quando Kafka
immaginò che il disegnatore Ottomar Starke avrebbe provato a rappresentare
visivamente l’insetto, protestò con il suo editore, perché solo all'immaginazione e alle paure di ogni lettore toccava dar forma a quella
trasformazione. Forse Kafka non avrebbe gradito il risultato del lavoro di
Pita, ma ne avrebbe apprezzato l’arditezza, la voglia di scavare nel corpo di
un ballerino come si scava in un melone, cucchiaio dopo cucchiaio, movimento
dopo movimento, fino alla buccia, fino alla spina dorsale delle nostre paure.
[1] - Traduzione dall’intervista
ad Arthur Pita di Phyllis Goldman, realizzata per il Joyce Theater di New York
– settembre 2013.
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