Scrittori non di best seller: come uscire da se stessi e sopravvivere
Gli scrittori (di best seller e
non) amano parlare di due cose: di se stessi e di se stessi attraverso le loro
opere. Fin qui nulla di strano, già Leopardi
nei suoi Pensieri (pubblicati postumi
nel 1845) si lamentava di questa
attitudine propria di molti suoi colleghi, tanto da prevedere l’apertura di un
«ateneo di ascoltazione» dove, a qualunque ora del giorno e della notte,
gli autori avrebbero potuto leggere le loro opere davanti a un gruppo di
astanti selezionati fra gli autori stessi, visto che (e siamo agli inizi
dell’Ottocento) i “comuni ascoltatori” non bastavano a rispondere alle esigenze
dei troppi scrittori e del loro insaziabile ego.
A distanza di due secoli la situazione non è così diversa, l’alfabetizzazione di massa e un sistema socio-culturale basato sempre più sulla necessità di porre se stessi al centro dell’attenzione altrui (reale o virtuale poco importa) hanno fatto da moltiplicatore del fenomeno, lasciando invariato il risultato.
Gli scrittori sono sempre troppi e gli ascoltatori/lettori pochi, pochissimi, quasi estinti. La crisi economica non ha aiutato, costringendo i pochi ascoltatori/lettori rimasti a rinunciare al piacere della lettura dell’ego scrittorio per poter comprare un po’ di cibo in più, preferendo leggere gratuitamente le esternazioni di ascoltatori come loro che, grazie ai social networks, hanno potuto prendersi una rivincita sul sistema di comunicazione mono direzionale degli scrittori ufficiali.
Come insegna Zygmunt Bauman davanti a un cambiamento di scenario in negativo, gli esseri umani tendono a attaccarsi fra di loro, suddividendosi in sottogruppi pronti a difendere le loro mura dai barbari. Mura che sono sorte con incredibile velocità, rendendo sempre più difficile il confronto e la contaminazione fra gli scrittori.
Abbiamo quindi scrittori di best seller (che pubblicano con le grandi realtà editoriali e vendono decine di migliaia di copie, puntando sul “parlato” come unico stile possibile per interessare i loro lettori), scrittori non di best seller (che pubblicano con le stesse realtà senza raggiungere gli stessi livelli di vendita del primo gruppo, quelli che Bruno Arpaia ha definito pochi giorni fa su La Repubblica “semi-professionalizzati”), scrittori minori (quelli che pubblicano solo con realtà di nicchia per cui mille copie vendute rappresentano una chimera), scrittori emergenti/esordienti/aspiranti (quelli che usano il self-publishing o si rivolgono a editori a pagamento, per i quali la vendita effettiva del libro è un optional) e potrei azzardare molte altre classificazioni.
La tentazione di distruggere un altro sottogruppo per invaderne i confini e nutrirsi così dei suoi ascoltatori/lettori è grande e potrebbe soddisfare l’ego del gruppo dominante, ma l’effetto sarebbe di breve durata, presto si stremerebbero anche gli ascoltatori/lettori conquistati.
A distanza di due secoli la situazione non è così diversa, l’alfabetizzazione di massa e un sistema socio-culturale basato sempre più sulla necessità di porre se stessi al centro dell’attenzione altrui (reale o virtuale poco importa) hanno fatto da moltiplicatore del fenomeno, lasciando invariato il risultato.
Gli scrittori sono sempre troppi e gli ascoltatori/lettori pochi, pochissimi, quasi estinti. La crisi economica non ha aiutato, costringendo i pochi ascoltatori/lettori rimasti a rinunciare al piacere della lettura dell’ego scrittorio per poter comprare un po’ di cibo in più, preferendo leggere gratuitamente le esternazioni di ascoltatori come loro che, grazie ai social networks, hanno potuto prendersi una rivincita sul sistema di comunicazione mono direzionale degli scrittori ufficiali.
Come insegna Zygmunt Bauman davanti a un cambiamento di scenario in negativo, gli esseri umani tendono a attaccarsi fra di loro, suddividendosi in sottogruppi pronti a difendere le loro mura dai barbari. Mura che sono sorte con incredibile velocità, rendendo sempre più difficile il confronto e la contaminazione fra gli scrittori.
Abbiamo quindi scrittori di best seller (che pubblicano con le grandi realtà editoriali e vendono decine di migliaia di copie, puntando sul “parlato” come unico stile possibile per interessare i loro lettori), scrittori non di best seller (che pubblicano con le stesse realtà senza raggiungere gli stessi livelli di vendita del primo gruppo, quelli che Bruno Arpaia ha definito pochi giorni fa su La Repubblica “semi-professionalizzati”), scrittori minori (quelli che pubblicano solo con realtà di nicchia per cui mille copie vendute rappresentano una chimera), scrittori emergenti/esordienti/aspiranti (quelli che usano il self-publishing o si rivolgono a editori a pagamento, per i quali la vendita effettiva del libro è un optional) e potrei azzardare molte altre classificazioni.
La tentazione di distruggere un altro sottogruppo per invaderne i confini e nutrirsi così dei suoi ascoltatori/lettori è grande e potrebbe soddisfare l’ego del gruppo dominante, ma l’effetto sarebbe di breve durata, presto si stremerebbero anche gli ascoltatori/lettori conquistati.
Non sarebbe forse il caso di andare alla ricerca di territori
inesplorati? Chiudendo per un attimo il proprio ego nella scatola in cui
abbiamo nascosto per anni le orecchie, provando
a scendere dal nostro scranno e a sederci in mezzo agli ascoltatori/lettori
per capire cosa li tiene lontani dalle letture altrui? Forse questo porterebbe gli
scrittori a esternare meno (in quantità e frequenza) ma ad agganciare ciò che
scrivono a un reale bisogno non solo loro ma anche della piccola platea che avranno
(speriamo) davanti.
E sì, tutto questo porterebbe molti più scrittori non di best seller a dover fare un secondo o un terzo lavoro per sopravvivere, ma non è quello che già fanno molti lettori senza avere dalla loro l’emozione di creare dal nulla una storia?
E sì, tutto questo porterebbe molti più scrittori non di best seller a dover fare un secondo o un terzo lavoro per sopravvivere, ma non è quello che già fanno molti lettori senza avere dalla loro l’emozione di creare dal nulla una storia?
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