Eduardo De Filippo e i nostri bastimenti di verità
Per molta parte della sua vita Eduardo osservò le
parole che l’uomo irrorava intorno a sé, senza riuscire, volere, spesso osare
metterle di fronte a quelle che aveva dentro (pensiamo al suo testo teatrale Le voci di dentro del 1948 in cui mette
in scena l’incomunicabilità fra questi due mondi), come se la verità fosse un
sogno, sciocco e pericoloso, in cui il dubbio si annida e pur di uscire fuori
prende le forme più folli. Proprio come accade al protagonista de Le
voci di dentro, che sogna un omicidio così reale da costringerlo a fare
ciò che non avrebbe mai pensato: dire e
dirsi la verità. E la verità è poco piacevole, la verità è essere l’un contro l’altro armati per eliminare i dubbi,
come se la vita fosse una tovaglia e dubbi e paure solo briciole della nostra
giornata da sbattere in testa (“scotoliare” avrebbe detto Eduardo) su chi abita
al piano di sotto, senza capire che c’è qualcuno che proprio adesso sta facendo
lo stesso con noi. E allora, prima che le briciole ci coprano la vista,
rientriamo in casa, prendiamo un libro di poesie di Eduardo e iniziamo a
leggere. Lentamente. Lasciando che le
voci di fuori si combattano un po’ per conto loro. Poi rileggiamo, perché
non c’è fretta, non c’è emozione da mettere subito in condivisione con
l’esterno, prima dobbiamo sentirla noi, capirla noi e se rimarrà solo nostra e
nessuno saprà che l’abbiamo provata, sarà per questo meno reale?
Domande. A Eduardo piacevano sebbene lo
facessero sentire «uno sfollato» della vita che solo sul palcoscenico si
sentiva a casa, lì dove poteva «vivere sul serio quello che gli altri, nella
vita, recitano male.» Proviamo a smentirlo, almeno per una volta.
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