Riscrivere se stessi, ma con la calligrafia adatta.
Beautiful Letters Handwriting.
Che letteralmente potrebbe essere tradotto con “Servizio di scrittura a mano di
belle lettere”, ossia una società che si sostituisce ai suoi clienti per
scrivere le loro lettere più personali, usando la loro calligrafia riprodotta
perfettamente dal computer attraverso un sistema di algoritmi. É in questa ipotetica
società (ma non così
futuristica) che lavora lo scrittore Theodore Twonbly, protagonista
di her, nuovo film di Spike Jonze presentato in concorso e in anteprima
europea al Festival Internazionale del Film di Roma, dopo aver ricevuto
critiche entusiastiche al 51st
New York Film Festival. Theodore è il miglior hand writer della
società, perché è il più attento ai particolari, perché quando guarda il volto
di una persona, che sia sullo schermo di un pc o dal vivo, cerca di percepirne
il carattere, i desideri, le paure per condensarle poi nella pagina che sta per
scrivere. E sebbene nessuno dei suoi destinatari saprà mai chi ha deciso di
dedicare uno spazio dei propri sospiri a loro e solo a loro, Theodore
continua a regalare un pezzetto delle sue emozioni a degli sconosciuti, senza
aspettarsi nulla in cambio. E se per secoli l’uomo è dovuto ricorrere al
supporto di altri esseri umani, custodi dell’arte della scrittura, in quanto,
pur consapevole delle proprie emozioni, non era in grado di trasporle su carta
perché analfabeta, con questo
film Spike Jonze ci propone un prossimo futuro in cui l’analfabetismo non
sarà sostanziale ma emozionale. Tutti saremo in grado di scrivere, anche perché
assistiti da pc a comando vocale, che correggeranno dinamicamente la nostra
grammatica senza interpellarci, ma non saremo più in grado di analizzare e
comprendere le nostre emozioni, rischiando di dettare solo silenzi (o sospiri
come fa spesso Thoeodore) a pc che ci incalzeranno con domande mirate a decodificare
e trascrivere l’intrascrivibile.
Forse allora qualcuno inventerà
un sistema operativo, come quello che scoprirà Thedore, capace di
adeguarsi agli input emozionali del suo owner, diventando un risolutore
emozionale, che organizza la vita e le speranze del suo partner corporeo,
donandogli così l’inattesa sensazione che esista qualcuno (in questo caso
qualcosa) in grado di comprenderlo e amarlo, un’entità cui è possibile rivelare
tutte le proprie ansie, le insoddisfazioni, le recriminazioni, sentendosi
“capiti” e spronati a migliorare. Incontreremo allora il partner perfetto, più
sicuro, simpatico ed empatico, meno egoista e individualista. Ma, come ci dimostrerà
Theodore (mirabilmente interpretato da Joaquin
Phoenix che copre il 90% del film in solitaria, con solo la voce del suo
sistema operativo a fargli compagnia), quel noi stessi non esiste davvero.
Quella proiezione ideale, assoluta e perfetta di come dovrebbe essere la nostra
vita per renderci davvero felici, è solo nella nostra testa e non riusciremo
mai a trovare una persona corporea che ne sia la copia perfetta. Vivremo allora
per anni con un’idea di altro da noi che non esiste e ci porterà a parlare con
serenità del nostro dolore su Facebook, ma non alla persona che dorme vicino a
noi da anni.
Il merito di questo film non è
soltanto di portare, con estrema naturalezza e leggerezza, il pubblico a
immaginare la propria vita in una versione 2.0 di se stessi, ma anche a farlo
sembrare la cosa più necessaria per poter poi riscoprire cosa si ha davvero
intorno e capire che si finisce sempre per deludere qualcuno e allora è meglio
iniziare prima possibile, magari non da se stessi.
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