Il Pulitzer, i premi letterari e la scelta di Donna Tartt.
Vi ricordate il pomodoro?
Ne parlavamo qualche
settimana fa osservando il mercato editoriale inglese che si sta chiedendo
(in Italia lo facciamo ahimè da tempo) se lo scrittore sia una forma di vita a
rischio. Eravamo partiti da Dustin Hoffman e dalle sue peripezie da attore
disoccupato in una New York anni '80 nel film Tootsie. Per lavorare e quindi mangiare,
aveva accettato di interpretare il pomodoro in uno spot pubblicitario, prima di
mandare tutto a monte perché non voleva sedersi, in quanto pomodoro fedele alla
propria natura (i pomodori non si siedono!).
Lo scrittore oggi deve
affrontare lo stesso tipo di prove, deve trasformarsi in attore,
affabulatore, venditore, intrattenitore, predicatore, tuttologo e magari anche
in esaminatore o produttore di pensieri in versione sms o emoticon per un
pubblico che difficilmente leggerà un suo testo (l’esperienza di Masterpiece
è emblematica). Tutto pur di essere “acquistato” dal lettore. Lo
scrittore lo sa, a volte non gli piace, ma lo ha accettato, perché sembra
essere l’unico modo per contendersi qualche giorno di attenzione sugli scaffali
(per averne di più, rimangono solo le armi di distruzione di massa).
Poi certo
ci sono i premi e anche per questi bisogna essere pronti a “farsi pomodoro”. Scrittori
come Rupert Thomson, Hanif Kureishi e Joanna Kavenna ammettono quanto sia
importante entrare nella cerchia del Booker prize britannico in termini
di vendite, sebbene il premio letterario più importante della Gran Bretagna non
abbia più l’effetto monetario di un tempo. E gli americani sanno quanto possa
fare la differenza entrare solo nella short list del National
Book Award o del Pulitzer.
Proprio qualche giorno fa è stato assegnato il Pulitzer per la fiction a Donna
Tartt e al suo terzo immenso romanzo (784 pagine) The Goldfinch (Il
cardellino - Rizzoli 2014). Il titolo si riferisce a un quadro che il
tredicenne protagonista del romanzo raccoglierà da terra dopo un attentato
terroristico al Metropolitan che ha causato la morte della madre. Inizierà così
una lunga (secondo alcuni critici “troppo lunga”) storia a metà
strada fra Dickens e Salinger, narrata con l’utilizzo di flashback dal
protagonista ormai adulto. Il romanzo della Tartt ha sconfitto gli altri
pretendenti, tra cui Philipp
Meyer con The Son, per la qualità del testo e (citando la
commissione per il Pulitzer) «per l’abilità a disegnare i personaggi, che seguono
dinamicamente l’evolversi del rapporto che lega il protagonista al dipinto». Ma
non dobbiamo dimenticare l’attenzione mediatica, ai limiti dell’ossessione,
che i lettori e molta della critica internazionale concedono a Donna Tartt.
Scrittrice che, per scelta, pubblica un libro ogni dieci anni (il suo primo
romanzo The secret Hhistory nel
1992 e il secondo The little friend nel 2003), lavorando in completo
isolamento.
Donna Tartt non ama mostrarsi in pubblico, generando un tale
livello di attesa per i suoi libri (apparentemente contrari a molte leggi del
marketing editoriale contemporaneo: sono lunghi, costruiti su più livelli,
pieni di citazioni letterarie, poco frequenti), da far pensare a una precisa
strategia più che a una scelta dettata da un profondo rispetto (e una potente
autostima) per il proprio lavoro di scrittrice.
Nell’esclusiva intervista
alla CBS Donna Tartt, con la sua voce controllata e il suo onnipresente
caschetto nero, sembra porgere all’interlocutore ogni sua parola come se fosse
il più prezioso dei gioielli. E l’interlocutore sembra crederle, sempre. Certo,
Donna Tartt viene da una famiglia
molto particolare, dove la passione per il libro è stato un filo conduttore
di molte sue scoperte ed è stata molto vicina al literary brat pack, un
gruppo letterario le cui storie sull’uso della droga e sulla disintossicazione
hanno creato non poco interesse fra gli ’80 e i ’90 in America (Bret Easton
Ellis era uno dei leader del movimento e un amico della Tartt). Questo, unito
alla necessità dichiarata dell’autrice di vivere da sola per lunghi periodi (anni)
per scrivere, al suo look molto severo e controllato, al suo modo di scrivere
decisamente cesellato, ha contribuito a creare la passione dei lettori per lei
oltre (o più?) che per i suoi libri. Che Donna Tartt sia un’ Amélie
Nothomb in grande? Probabilmente la vincitrice del Pulitzer 2014 ha
scelto il suo pomodoro, invece di indossarne molti altrui e per questo a lungo sarà invidiata.
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