Il Salone Internazionale del libro di Torino? È come giocare ad acchiapparella.
Nel post di domenica scorsa, ricordavo che i libri non
sono corpi morti, ma universi viventi. Possono diventare il nostro Dio
personale e consigliarci nelle scelte, anche in quelle più difficili. Qualche
giorno fa camminavo per i padiglioni ancora chiusi al pubblico del XXVII Salone Internazionale del libro
di Torino. Erano passate da poco le 9 del mattino e il salone avrebbe aperto al
grande pubblico solo di lì a un’ora. Il silenzio rimbalzava sui soffitti a
griglia, si muoveva veloce come un serpente di vento sul pavimento, per
attorcigliarsi corposo alle travi di cemento beige, retaggio dello stabilimento
di produzione FIAT che qui ha dimorato per cinquant’anni, assemblando pezzi di
storia automobilistica come la Topolino. Poi, d’un tratto, il silenzio si è
fermato al mio fianco ad ascoltare il sospiro dei libri. Incerottati,
ingabbiati e “incopertati” (a secondo del materiale usato dai singoli standisti
per tentare di proteggere i libri da mani estranee) erano lì tutti a fremere,
perché fossero liberati e così il loro respiro si ingrossava, come se
qualche fanatico manuale di fitness li avesse costretti a tenersi in esercizio
per apparire più sottili e luminosi, attirando su di loro gli occhi di un
lettore.
La
tentazione, forte, è stata di liberarli, avrei aiutato anche gli standisti,
cui tocca coprire e scoprire le loro offerte al lettore ogni mattina e ogni
sera delle cinque giornate del Salone. E poi avrei parlato con tutti quei
libri, con i “retati” del Gruppo editoriale Mauri Spagnol e di Sellerio, con
gli incerottati Adelphi, i “tendati” Speling & Kupfer e persino con gli
intoccabili Einaudi (gli unici liberi e comunque ansiosi). Gli avrei detto che
non dovevano spingersi gli uni con gli altri sugli scaffali e che non c’era
verso di perdere pagine per apparire sottili e leggibili a chi si spaventa per
gli over 300. Gli avrei detto che il fine settimana è il periodo più
pesante per il Salone ma anche quello che dà a un numero sempre più alto di
loro la possibilità di essere acquistati e poi, magari, anche letti. Gli avrei
raccontato delle corse che avrebbero dovuto fare i loro creatori, palline da
ping pong umane, lanciati a velocità di doppia curvatura fra presentazioni,
autografi, interviste, “presenziate” (orrido termine di cui rifiuto la
paternità, molto usato in Salone a intendere la necessità/dovere per gli
scrittori di partecipare a presentazioni di libri altrui per tentare di avere
indietro il favore).
Gli avrei
ricordato che dietro gli autori avrebbero corso, anche di più, i referenti
degli uffici stampa delle varie case editrici, quelli dei singoli autori (per i
più importanti e presunti tali) e relativo stuolo di astanti devoti in cerca di
un parere su un manoscritto che l’autore non leggerà mai. Per non parlare di
chi avrebbe rincorso i responsabili degli uffici stampa per confermare
un’intervista che: «…sì, doveva essere per le 15:00, ma forse alle 14:30 è
meglio, così posso inserire alle 15:00.., magari la mattina presto che c’è meno
casino. A distanza? Sì, a distanza, forse. Quando torniamo a Milano?» per poi
ritrovarsi a condensare venti minuti d’intervista in una chiacchierata in piedi
di 45 secondi.
Insomma,
perché i libri si stavano affannando tanto? Ero io a dovermi preoccupare. A me
toccava iniziare a camminare, a fare file e a rincorrere chi rincorreva gli
autori in fuga, solo per provare a fare qualche intervista.
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